Domani, domenica 3 marzo 2019, si svolgeranno le primarie per eleggere il nuovo segretario del Partito Democratico.
Sono molto poco informato sul tema, lo ammetto, ma pochi giorni fa mi è capitato di vedere qualche minuto del confronto tv dei 3 candidati. Erano ospiti di Sky, seduti uno di fianco all’altro, a rispondere alle domande di un giornalista.
Non ho visto l’intero confronto, solo una parte.
So pochissimo del momento storico che sta vivendo il PD e non ho idea di tutte le correnti che oggi lo frammentano. Non posso quindi sapere quali forze siano realmente in campo e come queste possano influire sul voto.
Conosco anche molto poco su ogni candidato, non so nulla delle loro idee e dei loro programmi.
E devo ammettere che, nei minuti in cui mi sono impegnato ad ascoltarli nel confronto tv, nemmeno l’ho capito.
Come sai questo blog parla di comunicazione strategica, quindi ancora una volta prenderò spunto dalla politica non per parlare di politica, ma di comunicazione. Basandomi su quello che ho visto in quel breve passaggio in tv.
Partiamo da un concetto: in politica non contano i programmi ma i candidati.
Cosa significa questa frase?
Significa che o il PD trova un vero leader o sarà destinato all’oblio.
Al più grande partito della sinistra italiana, che dovrebbe rappresentare una delle due potenziali forze di governo in un modello bipolare, manca un volto adeguato a rappresentarlo e guidarlo.
Certo, se questa fosse un’analisi politica dovremmo ragionare su tutti i limiti del modello bipolare, analizzare la nascita del terzo polo, il fronte populista/sovranista e via così…
Ma questa non è un’analisi politica.
Ho guardato qualche minuto della sfida tv dei tre candidati, che immagino siano gli elementi di punta del PD, e sono rabbrividito.
Domani vincerà Zingaretti, ma poco importa. Perché alle vere elezioni, quelle che contano, il PD sarà di nuovo costretto a raccogliere gli avanzi degli altri.
Tutto ciò che prenderà alla prossima tornata elettorale sarà esclusivamente la somma delle colpe degli altri partiti, movimenti e schieramenti. Un punto di là, un punto di qua e magari arrivano al 20%. Ma unicamente per demeriti altrui.
Non riesco a credere che nel 2019 in un grande partito non abbiano ancora capito come comunicare con il pubblico. E non riesco a credere che non siano in grado di trovare uno capace di farlo. Sono allibito.
Giachetti mi sembra uno dei personaggi di Boris, diretto da René Ferretti. Leggermente influenzato nel suo eloquio dal sempre immortale conte Mascetti. Cerca di nascondere una vanità che, in quanto tale, gli scappa dalle mani.
Così appare dall’esterno, intendiamoci, mica lo conosco di persona.
Ma a noi qui interessano le sensazioni che la comunicazione crea. E nel 2019 quella che genera Giachetti con la sua comunicazione, è una sensazione che proprio non funziona.
Martina recita un personaggio che vorrebbe tanto essere ma che purtroppo per lui non è. E questo lo rende incongruente nella sua comunicazione. Che è una delle cose peggiori che si possano dire a chi comunica in pubblico.
Potenzialmente, per la giovane età che oggi è un plus, sarebbe dei tre il candidato perfetto. Ma non acchiappa la fiducia di nessuno.
Zingaretti (che onestamente non avevo mai visto parlare prima di quei pochi minuti su Sky) è il più credibile dei tre. È il più autentico. Un po’ impacciato, un po’ bonaccione, e (paradossalmente proprio per questo) più a suo agio nel ruolo. Sembra che ci si possa fidare di lui, dai.
Ma fidare riguardo cosa? Non si capisce. E questo è un problema. Nella comunicazione politica il suo messaggio ha una forza debole.
Questa non vuole essere un’analisi approfondita della comunicazione dei tre attuali moschettieri del PD. È solo il frutto di una veloce occhiata. Sarebbe interessante farne una più strutturata, ma ti assicuro che oltre a mille dettagli la sostanza non cambierebbe.
Alla prossima
Filippo Mora
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